Come noto, da tempo immemorabile le streghe si davano appuntamento sulla cima del Roen, il cui nome tradisce una vocazione piuttosto luciferina se è vero che deriva da “rovi”. I viandanti erano terrorizzati: guai avventurarsi lungo i sentieri all’imbrunire e si potevano vedere questi esseri malvagi, dotati di enormi cannucce, rubare il vino ai convogli di passaggio e poi andare a far sabba sulla vetta. Ci pensò il Concilio di Trento a mettere ordine e delle megere non si vide più nemmeno l’ombra. Sul finire del XIX secolo una nuova genia di frequentatori si affacciò sul Roen, i turisti. Per meglio accoglierli si pensò alla costruzione di un rifugio (oggi scomparso) e a una funicolare, prodigio della tecnica, che dal 1903 univa Caldaro alla Mendola, superando 854 metri di dislivello con una incredibile inclinazione del 64%.
Questo il divertito resoconto dell’escursione, alla quale partecipò anche il consigliere SAT Piscel, avvenuta nell’ 1895 poco prima dell’inaugurazione del rifugio: «Il sacco l’ho con me… E allo spuntar del sole… no purtroppo, il sole non era ancora sorto ed appena ci si vedeva e già un impertinente coro di canti, di grida, di fischi, suonava la sveglia sotto le finestre dei dormiglioni, che scommetto in quel momento avrebbero regalato metà del Roen per un’oretta di sonno. Ma basta ci vuol pazienza, l’orario è orario e infatti alle quattro e dieci minuti col suono misurato delle scarpe e delle punte ferrate che battevano sui ciotoli, si usciva in schiera serrata dal villaggio, per muovere all’assalto di quella schiena boscosa, che così si presenta il Roen a chi lo guarda da Cavareno. Dissi schiera serrata, ma naturalmente dopo un quarto d’oretta di marcia, seguendo le buone regole della tattica ci dividemmo. L’avanguardia, sembrava avesse le ali al piede, e su e su, ben presto la perdemmo di vista. Noi della retroguardia eravamo comandati nientemeno che da Minerbi, che i maligni dicono abbia special vocazione per il commando delle retroguardie, e che in quel giorno era proprio di vena… I nostri compagni erano sulla cima da quasi un’ora, e noi altri eravamo ancora su qualcuno dei comodi praticelli del pendio, magari seduti per essere più ad agio, a ridere delle tirate di quel caro matto, al quale ad onore del vero, bisogna dire, teneva bordone un’epidemia generale di buonumore in tutta la compagnia. La strada è tanto comoda e bella, e tanto più era comodo e bello il nostro sistema di marcia, che arrivammo alla cima senza accorgercene e posso garantire che non eravamo sudati ed in compenso di quell’ora buona che si aveva perduto, scommetto, che se è vero che ogni risata aggiunga un filo alla trama della vita, noi quel giorno ne abbiamo tessuto una tela. Del resto cosa importa correre, se quando giungemmo lassù, tutto il panorama bellissimo era ancora al suo posto, e l’altro panorama più vicino, ma non meno attraente degli apparecchi per la colazione era intatto anche quello? Ma no, si può essere affamati come un cosacco, e imbastiti di prosa positiva come un bottegaio olandese, non è alla colazione che si pensa in quel primo momento, tanto gagliardo è il soffio della serena poesia della natura che ci batte in viso appena giunti lassù. Al di sotto, come un’immensa carta geografica a rilievo si distende da una parte la valle di Non, dall’altra quella dell’Adige, e più lontano altre vallette, altri monti e gruppi e catene di montagne che s’incalzano e sembra corrano l’una dietro l’altra a nascondersi nella vampa d’argento; al di sopra giganti severi e canuti a guardia di quel Paradiso terrestre i ghiacciai, quelli dell’Adamello, la Presanella, la Tosa, il gruppo del Cevedale e risplendenti in lontananza i colossi delle Alpi Centrali. Non si vorrebbe mai ristar di guardare, ma a dir vero in noi dopo un certo tratto “Più che il veder poté il digiuno” e sdraiatisi sull’erba dietro il rifugio si fece la distribuzione dei viveri. Al tepore di quel bel sole d’Agosto che lassù si saluta, come un amico, accarezzati da un’arietta pregna di tutti i balsami dell’Alpe, arietta che merita essa sola, si faccia 2000 metri di salita per andarla a trovare; davanti tutto quel bellissimo quadro, e in mezzo ai motti, alle facezie, sgorganti da quel benessere acquistato più o meno col sudore della nostra fronte, e un pochino diciamolo pure davanti a quelle provvigioni, desiderate da un paio d’ore come la manna nel deserto, era un vero Paradiso». (Antonio Piscel – “L’inaugurazione del rifugio Roen”, IN: Annuario SAT, A. 19, 1895).
Tredici anni dopo, il 28 agosto 1908, presso l’Hotel Mendola, vide la luce uno dei più grandi alpinisti italiani di sempre, Ettore Castiglioni. La famiglia milanese era in vacanza in Val di Non e qui “Nino” aprì gli occhi scorgendo subito montagne e vasti panorami. Chissà se quella visione neonatale influì sul suo percorso di vita che lo vide diventare Accademico del CAI, apprezzato scrittore di guide alpinistiche nella collana “Guida dei monti d’Italia” (Pale di San Martino; Odle, Sella e Marmolada; Dolomiti di Brenta; Alpi Carniche) e non solo. Castiglioni terminò la sua esistenza terrena al Passo del Forno il 12 marzo 1944, in fuga dalla Svizzera, dove era stato bloccato dai gendarmi. Ufficiale degli alpini, aveva costituito un gruppo di partigiani in Valpelline e aiutato nell’espatrio antifascisti ed ebrei, tra i quali il futuro presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi. Per la sua opera, lo Stato d’Israele lo ha proclamato “Giusto tra le nazioni”.
Poco distante vide la luce un importante scienziato del XIX secolo, Giovanni Canestrini (Revò 1835 – Padova 1900). Oltre agli studi di biologia e aracnologia, è ricordato quale divulgatore dell’opera di Charles Darwin, nonché suo traduttore in italiano. La SAT lo nominò suo socio onorario, anche se non tutti i trentini ne apprezzavano le teorie. Infatti il busto in marmo, opera di Andrea Malfatti, collocato in piazza Dante, venne vandalizzato dai cattolici, strenui oppositori delle teorie evoluzioniste.